Sta facendo un certo rumore, come era prevedibile, la ordinanza di Cassazione n. 13217 depositata il 17 maggio 2021, con la quale la Suprema Corte si è pronunciata su un tema che da anni imperversa nel mondo del diritto di famiglia, fino ad avere assunto contorni mitologici piuttosto che giuridici. Si tratta della cosiddetta sindrome di alienazione parentale, nonché addirittura di quella della “madre malevola”.
Infatti, è dai tempi del dottor Gardner (1931-2003) che la psicologia giuridica e la pratica dei tribunali - non solo italiani - devono confrontarsi con il dibattito sulla “scientificità” di questi concetti, e di conseguenza sulla possibilità di utilizzarli in sede giudiziaria, per motivare provvedimenti con i quali un figlio conteso venga affidato al genitore alienato, in maniera più o meno esclusiva o “super-esclusiva”.
Vedremo che l'ordinanza in esame ha suggerito alcuni punti fermi che erano decisamente auspicabili da tempo. Tuttavia, essi non devono autorizzare soluzioni nelle quali, come si suol dire, venga gettato via il bambino assieme all'acqua sporca. Infatti, se è vero che merita di essere abbandonata la definizione dei suddetti fenomeni come “sindromi” psichiatriche - cioè, in sostanza, come disturbi della personalità del soggetto interessato -, non per questo si può sostenere che i fenomeni dell'alienazione parentale non esistano o siano irrilevanti. Sul punto, anche il DSM-V - cioè, il “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” dell'associazione psichiatrica americana, considerato il punto di riferimento della materia - è arrivato alla conclusione che la cosiddetta PAS, sulla quale ancora si dibatte nei nostri Tribunali (con un sensibile ritardo dovuto a ragioni ideologiche), non esiste come disturbo psichiatrico, individuabile come tale in uno o più attori del conflitto familiare, ma nello stesso tempo è certamente esistente come disturbo relazionale. In altri termini, l'alienazione parentale non è una forma di alterazione della personalità, ma senz'altro rappresenta una disfunzionalità nelle relazioni tra i genitori e i figli contesi, che non può essere ignorata nei contesti giudiziari. Al contrario, la sindrome della madre malevola, della quale si è parlato ampiamente in alcuni dibattiti, non è individuabile clinicamente, ed è quindi corretto che non possa essere messa a fondamento di una sentenza sull'affidamento di un figlio minorenne, per le ragioni che andremo a riassumere.
Nell’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso relativo a una sentenza della Corte d'Appello di Venezia, che aveva confermato una delle diverse sentenze che, seguendo un orientamento particolarmente diffuso tra i consulenti psicoforensi di quella regione, aveva ritenuto ammissibile l'inversione radicale dell'affidamento a favore del genitore alienato, sulla base della diagnosi relativa a questa sindrome.
La Cassazione, pertanto, ha giustamente richiamato i principi secondo il quali, in primo luogo, la decisione sull'affidamento del minore all’uno o all'altro genitore spetta al giudice, che non può limitarsi a raccogliere acriticamente le indicazioni del CTU, dovendo piuttosto sviluppare un proprio ragionamento che consenta di “privilegiare il genitore che appaia più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore”. Per l'individuazione di questo genitore il giudice deve effettuare, senza delegarlo al perito, “un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio, che potrà fondarsi sulle modalità con il quale il ciascun genitore ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità a un assiduo rapporto, nonché sull'apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente che è in grado di offrire al minore”.
Se è comprensibile, e spesso necessario, che per conoscere la situazione concreta di un conflitto genitoriale il giudice debba affidarsi alle indagini di un consulente tecnico, è pur tuttavia vero che non può mai esimersi dall’effettuare in proprio il suddetto ragionamento. Nella fattispecie, la Corte d'Appello di Venezia si era invece limitata a recepire acriticamente la consulenza tecnica d'ufficio, che a sua volta aveva formulato “una sorta di astratta prognosi circa le capacità genitoriali della madre”. E’ vero che quest'ultima si era resa responsabile di episodi gravi, riconosciuti come tali da parte della stessa Corte di Cassazione, attraverso i quali avrebbe tentato di impedire che il padre incontrasse la figlia. Tuttavia, i giudici di merito non avevano effettuato, come sarebbe invece stato necessario, “una valutazione più ampia, ed equilibrata”, che considerasse “ogni possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della madre, nell'ambito di un equilibrato rapporto con l’ex partner”, e che soprattutto valorizzasse “il positivo rapporto di accudimento intrattenuto con la minore”.
La Corte d'Appello, al contrario, aveva riconosciuto che la madre mostrava capacità di accudimento, ma non aveva valutato le stesse in comparazione con la posizione dell'altro genitore, finendo per giustificare il super-affidamento del figlio a quest'ultimo soltanto sulla base di una diagnosi di alienazione parentale, considerata come un disvalore insormontabile. Tanto è vero che la consulenza d'ufficio, e di conseguenza le sentenze di merito, assieme alla pretesa PAS avevano accertato “una forte animosità” della madre nei confronti dei periti e una sua “refrattarietà a seguirne i suggerimenti e le prescrizioni”. Come a dire che la donna si era opposta a ciò che, in realtà, un consulente tecnico non dovrebbe mai permettersi di fare, nonostante le eventuali autorizzazioni o incoraggiamenti del giudice al riguardo. Sostiene l'ordinanza di Cassazione in esame che “proprio i limiti caratteriali della madre avrebbero dovuto essere affrontati e valutati nella prospettiva di un'offerta di opportunità diretta a migliorare i rapporti con la figlia”. In ogni caso, tali limiti non avrebbero dovuto essere valutati “in senso fortemente stigmatizzante, come espressioni di una irrecuperabile incapacità di esprimere capacità genitoriali nella confronti della figlia, pur in mancanza di condotte di oggettiva trascuratezza o incuria”.
In pratica, quindi, i consulenti d’ufficio erano partiti dalla loro diagnosi di alienazione parentale per arrivare, sulla base di questa, a decidere che l’unico genitore “in grado di dare equilibrio e serenità” alla bambina fosse il padre, sul presupposto che lui non soffrisse della sindrome stessa. Al contrario, essendo in realtà la PAS un disturbo relazionale, la sua incidenza avrebbe dovuto essere valutata in comparazione tra tutti gli attori del conflitto.
La Corte di Cassazione si è spinta ad affermare che nella pronuncia impugnata si ravvisavano inammissibili valutazioni “di tatertyp”, e cioè una sorta di “colpa d'autore” a carico della madre, connessa alla diagnosi di fatto della sindrome. Un simile giudizio è particolarmente severo, se si considera che il concetto di tatertyp era tipico del diritto penale nazista, che riteneva di poter individuare la colpa di un soggetto non sulla base dei fatti concreti da lui commessi, ma dall’analisi della sua personalità.
L'ordinanza qui commentata ha dunque cassato con rinvio, chiedendo che dalla Corte d’Appello venisse considerato maggiormente il profilo delle conseguenze sulla minore del cosiddetto super-affido al padre, con la inevitabile attenuazione dei rapporti con la madre. Vale a dire che, secondo la Cassazione, quella che deve essere valutata in simili casi è la difficoltà relazionale tra i genitori, esaminando entrambi nel vissuto della loro relazione, senza pretendere di formulare giudizi sulla loro personalità, quanto meno se non emergono in essa tratti chiaramente patologici, che comunque non possono essere desunti da una diagnosi di PAS o peggio di sindrome della madre malevola. Questo a prescindere dalla “scientificità” o meno di tali disturbi, che infatti, esplicitamente, non è stata né affermata né negata dalla Suprema Corte.
La sentenza in esame è dunque pregevole nei suoi contenuti, anche se, forse, più per quello che sottintende che non per quello che dice apertamente. Infatti, è positivo che si richiami l'esigenza, ormai divenuta urgente nel diritto di famiglia, di evitare che i giudici affidino ai consulenti tecnici d'ufficio decisioni che spetterebbero unicamente a loro, riguardo alle modalità dell'affidamento. Occorre tenere presente che il consulente tecnico ha la funzione - spesso imprescindibile, in casi come questi - di esaminare le modalità con cui i genitori si rapportano al figlio, nonché le situazioni che ostacolano la presenza nella sua vita di entrambi i genitori. Eventualmente, il perito potrà pure valutare i tratti di personalità di un genitore o dell’altro che possono risultare ostativi. Tuttavia, il giudizio peritale deve essere sempre effettuato in maniera comparativa tra entrambi i genitori, e qualora si verifichi la sussistenza del fenomeno dell'alienazione parentale, intesa correttamente come disturbo relazionale e non come sindrome psichiatrica, il CTU - come precisato nell’ordinanza in esame - dovrà analizzare nel dettaglio anche la condotta del genitore ostacolato, e indicare al magistrato quali potrebbero essere le conseguenze in danno ai figli in caso di allontanamento dal genitore alienante.
In particolare, è necessario superare il fenomeno troppo spesso riscontrabile nei tribunali, per cui i giudici - fin dalla formulazione dei quesiti per il CTU - finiscono per demandare allo stesso ogni decisione riguardo alle modalità di affidamento, imponendogli di fatto di diventare lui stesso giudice dei diritti e delle relazioni. Inoltre, troppo spesso i CTU tendono a esagerare (in quanto autorizzati in tal senso dai giudici) nel prescrivere ai genitori “percorsi” di recupero della genitorialità. Questi ultimi, oltre a rappresentare soluzioni di scarsa efficacia, sono il più delle volte contrari alla legge, in quanto si traducono in vere e proprie terapie psicologiche conseguenti ad una diagnosi che un consulente d'ufficio in questa sede non sarebbe assolutamente autorizzato a somministrare, indipendentemente dalla richiesta in tal senso del giudice. Questo perché, se non altro, in situazioni di conflitto familiare in cui i genitori si contendono l’affidamento dei figli, uno psichiatra o uno psicologo non possono mai presumere di avere ricevuto il necessario libero consenso da parte del paziente.
Quanto poi alla questione dell'alienazione parentale, come sopra accennato, ormai dovrebbe essere chiaro che, se non sussiste come sindrome psichiatrica, non per questo non esiste come fenomeno molto ricorrente e grave di disturbo delle relazioni tra genitori separati. Tant'è vero che il citato DSM-V, manuale di riferimento anche in ambito psicoforense, inserisce le situazioni assimilabili alla alienazione parentale tra i cosiddetti “Relational Problems”, che per l'appunto vanno considerati come problemi di relazione e non come disturbi individuali.
Ben vengano dunque sentenze come quella in esame, se possono aiutare a evitare che siano delegate al CTU determinate decisioni che spettano al giudice soltanto, in quanto da adottare dietro l'accertamento dei fatti, e non sulla base della convenienza di criteri terapeutici, né tantomeno della disponibilità dei genitori alla collaborazione col consulente tecnico. Nello stesso tempo, però, non è corretto utilizzare tuttora - come si faceva ai tempi del dottor Gardner - il discorso ormai frusto dell'incerto fondamento scientifico della PAS, sulla quale, come si è detto, l’ordinanza in esame non si è pronunciata in linea di principio.
Il dibattito sulla scientificità della sindrome non può essere ancor oggi un pretesto, tanto meno tra i giuristi, per negare l'esistenza di un così diffuso disturbo relazionale. Ai consulenti tecnici spetta accertare le situazioni in cui questo si presenta, ma non sarà mai giustificato un provvedimento di inversione dell'affidamento basato soltanto sulla valutazione della personalità del genitore alienante. Quello che occorre sempre, in questi casi, è un esame concreto della situazione di fatto e della qualità della relazione genitoriale, rispetto a entrambe le parti coinvolte. Nello stesso tempo, occorre che nella prassi giudiziaria si manifesti una piena attenzione alla situazione del genitore alienato: in realtà la migliore ricerca psicoforense concorda sul fatto che l'alienazione parentale non si presenta mai come un fenomeno improvviso, né tanto meno “unilaterale”, attribuibile soltanto alla malevolenza di un genitore verso l'altro.
Nel caso di specie sopra esaminato, la Corte di Cassazione si era trovata ad avere a che fare con una diagnosi di “sindrome della madre malevola”, che oltre a essere incerta nella sua definizione clinica era comunque stata trattata in modo apodittico dai consulenti tecnici del merito. In realtà, l'alienazione parentale e i fenomeni a essa connessi sono sempre l'esito di un processo nel quale anche il genitore alienato gioca un ruolo. Pur dovendosi tenere presente che il genitore non collocatario trova sempre e comunque oggettive difficoltà nel mantenere un rapporto continuativo con il figlio, visto che non può essere quotidianamente presente, nello stesso tempo occorre che anche la sua condotta venga valutata in maniera comparativa. Lo scopo ineludibile è di comprendere se, nonostante la condotta alienante dell'altro genitore, vi sia da parte dell'alienato una maggiore idoneità per ottenere l'affidamento più o meno super-esclusivo. In mancanza di questa valutazione, le decisioni “unilaterali” basate sulle opinioni di tipo diagnostico dei periti, o anche sulla maggiore o minore docilità nel seguire “percorsi” di recupero di dubbia efficacia, oltre che di incerta legittimità costituzionale, saranno sempre - almeno si spera - destinate a essere riformate dalla Suprema Corte.
La "sindrome di Stoccolma" non esiste: tuttavia tale definizione viene usata per comodità dei non addetti ai lavori. Non è una sindrome però esistono coloro che ne sono colpiti, ed esistono le sue componenti