La sentenza della Corte costituzionale numero 209 del 12 settembre 2022 ha indirettamente riportato al centro dell’attenzione una questione capitale, che si spera verrà ripresa in termini più generali dal costituendo governo: la discriminazione fiscale nei confronti della famiglia.
È difatti stata dichiarata incostituzionale la norma dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del Decreto Legge 6 dicembre 2011, n. 201, laddove - ai fini dell’imposizione IMU - stabiliva che «per abitazione principale si intende l’immobile… nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», dovendosi ritenere abrogato l’inciso «e il suo nucleo familiare».
In questo modo si è risolto il problema recentemente venuto alla ribalta sulla base di una riforma del 2021, e di conseguenti decisioni tributarie, per cui i soggetti uniti in matrimonio che tuttavia risiedevano in abitazioni diverse perdevano il beneficio della esenzione IMU rispetto ad entrambe. Vista la palese iniquità della situazione normativa che si era determinata, per la quale erano iniziate azioni di accertamento preliminari al recupero del credito, si è trattato di una decisione più che opportuna, che ha messo in luce l’atteggiamento negativo del legislatore tributario nei confronti della famiglia.
Di conseguenza a quanto sopra, è stata dichiarata l’incostituzionalità di altre norme dello stesso tenore, e precisamente quella contenuta nel quinto periodo del comma 2 dell’articolo 13 del medesimo D.L. 201/2011, nonché quella del comma 741, lettera b) della legge n. 160 del 2019, recentemente riformata con l’introduzione di un regime opzionale relativo al comune dove il nucleo familiare sceglieva di risiedere.
La sentenza in esame ha argomentato che la logica dell’esenzione dall’IMU è di salvaguardare l’abitazione dove il possessore dell’immobile ha stabilito la residenza e la effettiva dimora abituale, sulla base di una considerazione che attiene alla proprietà e all’uso che se ne fa, e non alla condizione personale del beneficato. Sicché, al fine del realizzarsi dell’esenzione, deve essere irrilevante che il soggetto sia coniugato, separato, divorziato, convivente o single. Pertanto, sono in palese contrasto con i principi costituzionali sanciti dagli artt. 3, 31 e 53 della Costituzione le norme che fanno riferimento alla residenza dell’intero nucleo familiare non per tutelare la famiglia, bensì al fine di negare il diritto al beneficio.
La Consulta ha ritenuto violato il disposto fondamentale dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui il requisito della residenza e della effettiva dimora abituale del possessore non erano considerati sufficienti per l’esenzione, essendo stato imposto di diritto anche il requisito della convivenza dell’intero nucleo familiare dell’interessato nello stesso immobile. In tal modo, dunque, si era concretizzata una discriminazione rispetto a chi, single o convivente di fatto, si vedeva riconosciuto il suddetto beneficio con i semplici primi due requisiti.
Secondo il ragionamento della Corte, con le norme abrogate la famiglia aveva finito per diventare, anziché fattore premiale di trattamento fiscale, come previsto dall’articolo 31 della Costituzione, un elemento discriminatorio in senso negativo. Le norme di cui sopra, per tale motivo, sono state dichiarate incostituzionali non solo in quanto lesive del principio di uguaglianza, ma anche nella misura in cui integravano di fatto una penalizzazione economica della famiglia.
Un ulteriore motivo di illegittimità, secondo la sentenza in esame, risiede nel principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Costituzione. Infatti, essendo l’IMU un’imposta reale e non personale, lo status personale del soggetto passivo ovvero le relazioni dello stesso con il proprio nucleo familiare devono rimanere del tutto inconferenti. Per giustificare un regime tributario diversificato sarebbe stato necessario che sussistessero ragioni oggettive e costituzionalmente orientate “sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità”, secondo l’insegnamento della sentenza n. 10 del 2015 della stessa Corte, evitandosi così “l’incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo perseguito”, anche se di per sé legittimo.
Nel nostro ordinamento, dunque, non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che hanno deciso di unirsi in matrimonio. Tale invece era l’effetto prodotto dalle norme censurate, perché, mediante il riferimento al nucleo familiare, si era prodotto l’effetto per cui, in assenza di matrimonio (o unione civile), le norme consentivano a qualunque possessore di immobile che vi risiedesse e dimorasse abitualmente di fruire pacificamente dell’esenzione IMU sull’abitazione principale, anche se unito in una convivenza di fatto con il possessore di un altro immobile. Al contrario, se i possessori avevano contratto matrimonio o unione civile si vedevano entrambi negare il beneficio, tra l’altro, secondo certe interpretazioni, in modo retroattivo.
La Corte costituzionale ha quindi opportunamente precisato che non è di per sé contrario alle finalità della legge il fatto che soggetti coniugati o civiluniti godano di una doppia esenzione IMU, se continuano a risiedere e abitare effettivamente in immobili diversi, considerando ciascuno di essi come abitazione principale. Questo in base al fatto che per la nostra Costituzione la famiglia è (o dovrebbe essere) un valore tutelato in via prioritaria. Quindi, discriminare fiscalmente i soggetti che si sposano rispetto ai conviventi è quanto meno irragionevole.
Per delimitare l’ambito del proprio intervento, la Corte ha precisato che le sue dichiarazioni di illegittimità costituzionale non dovranno determinare, in alcun caso, una situazione in cui le cosiddette “seconde case” delle coppie unite in matrimonio (o unione civile) possano usufruire indebitamente dell’esenzione. Il principio sancito è infatti quello per cui l’esenzione spetta “pro capite”, e non è ammissibile alcun riferimento alla situazione familiare del possessore. Sono stati quindi censurati solo gli automatismi introdotti dal legislatore, il quale, partendo da finalità antielusive, per definire il concetto di abitazione principale aveva finito per discriminare i soggetti passivi dell’imposizione rispetto al diritto fondamentale di costituire una famiglia. Ciò non toglie, tuttavia, che la stessa Consulta si sia premurata di responsabilizzare i comuni, affinché attivino gli strumenti per contrastare l’abuso dell’esenzione, verificando e accertando i casi in cui il contribuente non dimora abitualmente nell’immobile nel quale ha fissato la residenza anagrafica.
I comuni, per effetto di questa sentenza, sono ora chiamati a modificare eventuali disposizioni regolamentari o applicative, introdotte al fine di consentire ai soggetti passivi di fruire dell’esenzione. Si pensi al regime dichiarativo introdotto dall’articolo 5 decies del Decreto Legge n. 146 del 2021, che ha modificato il comma 741, lettera b) della legge n. 160 del 2019, con disposizione ora dichiarata incostituzionale, che prevedeva che i componenti del medesimo nucleo familiare dovessero optare per una sola agevolazione quando risultavano avere residenze e dimore abituali diverse.
Peraltro, a breve potrebbero giungere le richieste di rimborso da parte di quanti abbiano versato l’IMU sulla base delle norme dichiarate incostituzionali. Quindi, da una parte andrà affrontato dai comuni il procedimento amministrativo per i rimborsi d’ufficio e per la verifica delle dichiarazioni pervenute; dall’altra, saranno da risolvere i problemi di natura contabile attinenti alla copertura di bilancio da assicurare a fronte dei rimborsi, così come al minor gettito proveniente da eventuali atti di accertamento destinati a caducarsi. Alcuni comuni, nella prassi, avevano avviato le riscossioni sul solo presupposto di voler evitare il danno erariale, paventato dai funzionari per il caso di inerzia. Tuttavia, i profili di incostituzionalità ravvisati nella normativa, soprattutto per quanto riguarda l’eventuale applicazione retroattiva del regime opzionale, hanno ora eliminato alla radice questa eventualità.
A prescindere da quanto sopra, sarebbe il caso che la sentenza della Corte costituzionale in esame diventasse una occasione per prendere atto della profonda ipocrisia che tuttora è alla base di molte separazioni coniugali di comodo. Tutti gli operatori del diritto di famiglia, e, a giudicare da circolari e studi, anche i funzionari e gli agenti dell’Agenzia delle Entrate, sono perfettamente consapevoli del fatto che molte separazioni, specialmente tra i cittadini coi capelli grigi, non sono dovute al venir meno dell’affetto coniugale ma all’esigenza di mitigare il regime fiscale che grava sulle seconde case sopravvenute nel patrimonio familiare. Rimane insuperabile l’obiezione, sancita anche dalla giurisprudenza, per cui quello conseguente alla separazione è uno status che non può essere simulato, in quanto per la legge esso prescinde da ragioni affettive, e comunque visto il favore della legge per la riconciliazione la effettività di una precedente cessazione della convivenza è ben difficile da accertare. Tuttavia, la relativa diffusione del fenomeno fa comprendere quanto la voracità fiscale dello Stato si ponga facilmente in contrasto con la esigenza di tutelare la famiglia.
Comentarios